martedì 29 novembre 2016

DEMOLIZIONE DELL'AUTOSTIMA

Da ormai vari anni Giuseppina è una (libera) professionista nel suo campo: non solo è molto brava, ma si impegna a dare il massimo in ogni lavoro che fa. Non di rado si ritrova a lavorare anche agli orari più assurdi, fino a notte fonda, pur di conciliare la qualità con il rispetto delle scadenze. Il suo lavoro è anche molto apprezzato dai committenti, che la riempiono di complimenti. Purtroppo le loro finanze, la crisi che ha colpito duro, il momento d'incertezza, le pressioni dei fornitori, il brutto tempo, l'elezione di Trump alla Casa Bianca, il referendum, il cane che vuole fare la sua passeggiata e tanti altre legittime ragioni impediscono a questi committenti di pagare più di poche briciole.
Ma Giuseppina, come tutti ha le bollette e l'affitto da pagare, deve fare la spesa, e di meglio non si trova. Nonostante i complimenti, quelle volte che ha provato a chiedere un aumento le è stato risposto picche e quando ha preferito lasciar perdere perché le condizioni di lavoro e il compenso non ne valevano la pena, il committente di turno non ha avuto alcuna difficoltà a sostituirla con qualcuno che ha accettato quelle stesse condizioni o anche meno. facendo un lavoro peggiore, ma in fondo, chi se ne accorge, a parte gli operatori del settore?

Seppure demoralizzata, Giuseppina va avanti così per qualche anno. Ha anche pensato di mollare tutto, ma al di là della sua passione per questo lavoro, è anche il solo in cui abbia esperienza e non ha soldi da parte per potersi permettere di fermarsi a cercare altro. C'è sempre la speranza che prima o poi qualcuno arrivi con una proposta decente.

E infatti questo accade: un giorno un committente le propone, per il suo lavoro, più del doppio di quanto le abbiano offerto negli ultimi anni. Giuseppina è quasi commossa e con rinnovato entusiasmo si mette all'opera con ancora maggiore impegno. Se prima tirava le dieci di sera per mantenere il ritmo, ora arriva a oltre mezzanotte. Quasi impazzisce per conciliare una vita normale con il lavoro, ma è felice, perché finalmente qualcuno la sta pagando decentemente, addirittura più del doppio di quanto prendesse prima. E lei è pronta a dannarsi l'anima per essere all'altezza di questo compenso e per dimostrare, al committente e a se stessa, di meritarlo.

Quasi un lieto fine, quindi?
Non proprio. Perché, vedete, quello che Giuseppina percepisce per questo nuovo lavoro, pur essendo più di quanto prendesse finora, è comunque ancora al di sotto di quello che normalmente sarebbe un giusto compenso per la sua attività. Perché Giuseppina è ancora sottopagata, anche se meno di prima, soprattutto in relazione all'impegno che ci sta mettendo.

Il problema non è che Giuseppina sia stupida. Al contrario, Giuseppina è una donna intelligente, dotata e anche con una notevole esperienza alle spalle. Il problema è che se abitui la gente a sopravvivere con le briciole, il giorno in cui le darai un biscottino, si sentirà come se avesse ricevuto il tacchino ripieno e ti sarà persino grata. Perché la sua autostima sarà stata logorata e sgretolata a tal punto che un trattamento migliore verrà ritenuto addirittura equo, se non generoso. Ma per quanto un miglioramento possa essere giustamente apprezzato, se non porta veramente a condizioni di lavoro "normali", non può essere il punto di arrivo, non può convincere di non poter o dover pretendere di più. Anche perché, nel momento in cui si prenderà per buono che "poco" sia "giusto", il giorno in cui qualcuno offrirà nuovamente "quasi niente" non sembrerà un gran sacrificio accettare.

Si tratta di un meccanismo psicologico micidiale e nei periodi di crisi si diffonde a macchia d'olio, soprattutto fra chi svolge attività da libero professionista in settori non (ritenuti) essenziali.
A volte questo meccanismo può persino generare un'impressione di prosperità del mercato a causa dell'alto numero di produzioni esistenti unicamente grazie al lavoro sottopagato di centinaia di Giuseppine e Giuseppini.

lunedì 28 novembre 2016

COME SI SCRIVE UNA TAVOLA DI SCENEGGIATURA


Qualche tempo fa, forse all'interno di un corso che avevo tenuto (ma non ne sono certo), avevo creato questo foglio per mostrare come si scrive solitamente una tavola di sceneggiatura ("tavola" è il termine tecnico per "pagina"). Essendomi ricapitata sotto gli occhi mentre controllavo che cosa contenesse una delle tante "cartelle dimenticate" nel mio computer, ho pensato che potesse magari essere utile a qualcuno.
In realtà ogni sceneggiatore può poi adottare una propria impaginazione, quando scrive, ma questa, che ho appreso da Antonio Serra, a me è sembrata sempre la più funzionale. Consiglio di leggerla, oltre che guardarla, perché all'epoca ne approfittai per inserire nei testi un po' di consigli e indicazioni.
La gabbia qui presa in considerazione è quella tipica bonelliana a sei vignette.

martedì 22 novembre 2016

THE LOSER*

La vita è fatta di alti e bassi, il che è normale. Sono fasi che possono durare anche a lungo, magari anni, e quando si tratta dei bassi, la durata prolungata può essere molto logorante. Okay, nulla di originale, fin qua.
Il fatto è che nel momento in cui stiamo affrontando un lungo periodo di difficoltà e di problemi sul piano professionale, è facile cominciare a sentirsi dei falliti. E sapete allora che cosa succede? Che se ci sentiamo dei falliti, finiamo poi anche con il comportarci da falliti. E qual è la diretta conseguenza? Che comportarci da falliti porta chi ci circonda (e magari non ci conosce bene) a considerarci dei falliti. Ebbene, se ci sentiamo dei falliti, ci comportiamo da falliti e veniamo considerati dei falliti, finiamo con l'essere davvero dei falliti.
Allegro, eh?
No, non è per nulla allegro, ero ironico! Qual è, allora, la morale in tutto questo? Facile: ogni cambiamento parte sempre da noi, quindi cominciate col non sentirvi dei falliti! Lottate contro questa sensazione dettata il più delle volte da elementi esterni a voi e non abbandonatevi allo sconforto. Non esitate a cercare sostegno nelle persone a voi care e di cui vi potete fidare e vedrete che non ve lo negheranno. Se vi rendete conto che il vostro sconforto è ben più profondo e radicato, che le parole e la vicinanza di amici e parenti non vi è d'aiuto e che ogni tentativo di distrarvi, di tirarvi su e di scuotervi non serve a nulla, cominciate a prendere in considerazione l'ipotesi di aver bisogno di un supporto più qualificato o professionale.
L'importante è non trasformarvi nei vostri peggiori nemici e non avere paura di chiedere aiuto.
*In inglese "loser" significa perdente e in un paese che ha fatto del concetto di "vincitore" un vero e proprio mito, in cui vale la regola "non ci sono premi per i secondi arrivati", "loser" costituisce un insulto terribile, spietato e colmo di disprezzo. Fra i ragazzini è il peggiore epiteto che si possa immaginare.

giovedì 17 novembre 2016

QUANDO DISEGNARE "ALLA GIAPPONESE" ERA PROIBITO (NELLE SCUOLE DI FUMETTO)

Vedere oggi tanti disegnatori, cresciuti con cartoni animati e fumetti giapponesi, così influenzati da quello stile e raggiungere il successo grazie a fumetti o illustrazioni che sono il risultato di tale formazione non solo mi fa piacere per una questione di gusto, ma anche per ragioni molto personali: Teresa Marzia (mia moglie, lo dico subito) ha infatti compiuto quel percorso alla fine degli anni Ottanta, quando era molto più accidentato di oggi.

Se attualmente non c'è una sola scuola di fumetto che non proponga corsi di manga, fino ancora alla fine dello scorso millennio non era esattamente così. Quando frequentava la Scuola del Fumetto di Milano, Teresa si sentiva ripetere praticamente ogni santo giorno che doveva smetterla di disegnare “alla giapponese” (e immaginate quel "alla giapponese" pronunciato con un marcato disprezzo) per disegnare in stile realistico o comunque occidentale. Non che studiare disegno realistico le abbia nuociuto, tutt'altro, ma era proprio l'atteggiamento ostile nei confronti di qualunque dettaglio ricordasse anche solo lontanamente un cartone animato giapponese a essere pesante da reggere. Ogni santo giorno per tre anni.

Tavola dalla prima storia di Teresa, apparsa su Fumo di China n. 8 (1991).

All'epoca le scuole di fumetto, in Italia, si contavano sulle dita di una mano, Dylan Dog era appena "esploso" e stava diventando quel fenomeno di costume destinato a influenzare l'intero panorama fumettistico italiano, mentre le riviste che ospitavano i grandi autori godevano ancora di una discreta salute. Le edicole rappresentavano ancora i soli punti vendita per la maggior parte dei fumetti (esistevano già le prime fumetterie, ma in numero esiguo, inoltre erano quasi inesistenti le pubblicazioni dedicate esclusivamente a quel circuito), ma soprattutto l'invasione dei manga nel nostro paese doveva ancora iniziare e quasi nessuno (me compreso) aveva sentore dell'effetto dirompente che avrebbero avuto.

Questo per dire che, in quelle poche scuole cui accennavo prima, lo stile giapponese era fortemente osteggiato non solo per questioni di gusto degli insegnanti, ma anche perché ritenuto del tutto ininfluente sia sotto il profilo artistico che quello commerciale: se volevi avere la possibilità di essere preso in considerazione da un editore, anche il più scalcinato, dovevi disegnare o con lo stile realistico tradizionale oppure, partendo comunque dal disegno classico, sviluppare un tuo stile decisamente più "artistico" (poi decidete pure voi che cosa intendere con questa definizione!).
Ma ispirarsi o essere anche minimamente influenzati dai cartoni animati giapponesi era decisamente sconsigliato. Il mercato stava andando in una direzione (o, almeno, così sembrava) e scuole e case editrici seguivano il flusso.


I primi studi per Legs (1993)

Nonostante tutte le pressioni subite a scuola e la generale disapprovazione, Teresa riuscì a sviluppare un proprio stile mantenendo caparbiamente elementi derivati dai manga, soprattutto per quello che riguardava le caratterizzazioni dei personaggi.
Fu quindi con il suo stile che illustrò le storie su Fumo di China, con cui venticinque anni fa esordimmo entrambi nel mondo del fumetto, e quelle per l'Intrepido, dove la nuova gestione arruolò quasi in toto gli autori pubblicati sui primi numeri di FdC.

Quando però le giunse la proposta di realizzare le prove per Nathan Never, Antonio Serra, pur apprezzando i suoi disegni e ritenendola idonea per il primo numero della nuova testata dedicata a Legs Weaver, si trovò costretto a chiederle di essere un po' più realistica e, a tale scopo, la fece inoltre inchiostrare da Gianmauro Cozzi. La Bonelli, infatti, richiedeva uno stile più tradizionale e per quanto in testate come Nathan Never, Legs, Zona X (e, in seguito, anche Jonathan Steele) venisse concessa una libertà maggiore di "sperimentazione", comunque non si potevano superare certi limiti.

Il risultato di quella collaborazione fu sicuramente il più orientaleggiante mai visto fino a quel momento in Bonelli, ma comunque un'occidentalizzazione di quello che era lo stile di Teresa. Che, fra l'altro, in quel momento era una delle poche disegnatrici della Bonelli (praticamente, oltre a lei, si potevano contare solo Lina Buffolente, Lucia Arduini, Laura Zuccheri e Luana Paesani): fu proprio Legs ad aprire le porte di via Buonarroti a uno stuolo di ragazze di talento.


Tavola dal numero 1 di Legs (1995).

Un ulteriore passo in avanti fu possibile quando Teresa cominciò a disegnare per Jonathan Steele, serie di cui era anche la creatrice grafica. Sebbene si trattasse ancora di una testata bonelliana, nel frattempo, e proprio grazie a Legs e alle sue disegnatrici, i paletti si erano leggermente allargati rispetto a quattro anni prima e Teresa ebbe la possibilità di utilizzare uno stile decisamente più vicino al suo. Intanto l'invasione di manga nel nostro paese era iniziata e anche il mondo del fumetto italiano stava cambiando, così le (ormai numerose) scuole di fumetto si stavano arrendendo all'orda di aspiranti disegnatori e disegnatrici che pretendevano, giustamente, di esprimersi con stili a loro consoni.
Così, seguendo il detto “se non puoi batterli, unisciti a loro”, nelle scuole iniziarono i primi corsi di manga.

Tavola da Jonathan Steele n. 54, con le chine di Jacopo Brandi (2003).

Tutto è avvenuto abbastanza velocemente, alla fine, tuttavia oggi è difficile pensare a quante difficoltà si potessero incontrare all'epoca se si voleva disegnare con uno stile giapponese: manga e cartoni animati nippi hanno ormai influenzato migliaia di artisti in tutto il mondo e persino in Bonelli è possibile ammirare opere straordinarie come l'Agenzia Alfa di Massimo Dall'Oglio. Fortunatamente!

Illustrazione di Agenzia Incantesimi del 2016.